Numerosi in tutta Italia gli eventi organizzati per celebrare il centenario della nascita di Federico Fellini (1920-1993), nato a Rimini il 20 gennaio 1920. Il Sole 24 Ore: «Milano. […] A Palazzo Reale (Sala Conferenze dalle 10.30 alle 16.30) si terrà il convegno internazionale, coordinato da Maurizio Porro, dal titolo “Ricordiamo Federico Fellini”, cui parteciperanno l’assessore alla Cultura, Filippo Del Corno, il direttore del Palazzo Reale di Milano, Domenico Piraina, gli eredi Masina, gli amici e coloro che hanno collaborato con lui, i curatori della mostra di Palazzo Reale Milano, Vincenzo Mollica, Alessandro Nicosia e Francesca Fabbri Fellini, nipote del maestro. […] Rimini. […] Alle 21.30, sul palcoscenico del Teatro Galli salirà il maestro Vince Tempera, per augurare “Buon compleanno Federico” attraverso le musiche che hanno reso immortali le pellicole del grande regista. Roma. […] Al Cinema Nuovo Sacher di Nanni Moretti (largo Ascianghi, 1 – Roma) saranno proiettati: Lo sceicco bianco (alle 16.15), I vitelloni (alle 18), 8 ½ (alle 20) e Amarcord (alle 22.30). […] Sarà inaugurata la mostra “Federico Fellini” curata da Simone Casavecchia, con una selezione di trenta immagini provenienti dalla Fototeca nazionale (Centro sperimentale di cinematografia) nel Salone Vanvitelliano della Biblioteca Angelica. La rassegna è aperta fino al 28 febbraio».
ORIANA FALLACI. Allora facciamoci coraggio, signor Fellini, e parliamo di Federico Fellini: tanto per cambiare. Le costa fatica, lo so: lei è così schivo, così segreto, così modesto. Ma parlarne è nostro dovere: anche di fronte al paese. Ancora un poco e la storia della sua vita, il significato della sua arte diventeranno materia di insegnamento in tutte le scuole della repubblica: come la matematica, la geografia, la religione. I libri di testo, non esistono già? Federico Fellini, Storia di Federico Fellini, Il mistero di Fellini… Nemmeno su Giuseppe Verdi s’è scritto tanto. Eh, sì: a pensarci bene lei è il Giuseppe Verdi dell’Italia d’oggi. Vi assomigliate perfino: nel cappello. No, la prego: perché nasconde il cappello? Giuseppe Verdi lo portava proprio così: nero, a tese larghe…
FEDERICO FELLINI. Disgraziata. Screanzata. Ballista. Maleducata.
Perché? Anche Verdi era bravo, sa? Per la prima delle sue opere accadeva esattamente quello che accade per le prime dei suoi film. Io credo che solo per La Traviata gli italiani abbiano fatto il fracasso che hanno fatto per il suo Otto e mezzo: con le poltrone prenotate da mesi, le signore con l’abito nuovo, i critici che intrecciano corone di alloro…
«Già. Come se Lo Sceicco Bianco non fosse stato un insuccesso clamoroso, e Il bidone non fosse stato accolto con freddezza glaciale, e La strada non avesse ricevuto sghignazzate e insolenze. E La dolce vita? Cosa credi, ragazzi’, che abbia avuto solo lusinghe ed elogi?»
Oddio! A Milano volò uno sputacchio. A Roma venne la Celere. Ma anche a Verdi gettavano ogni tanto verdura e uova fresche. Signor Fellini! Non sarà mica preoccupato? Mi scusi, sa: ma a vederlo così placidamente disteso sul letto, con la sua aria da gatto soriano, mi sembrava tanto tranquillo…
«Son tranquillissimo. Dopotutto ho fatto quel che avevo in testa di fare: riesco a non preoccuparmi troppo che il film possa piacere o no. L’attesa non mi lascia indifferente, è ovvio. Ma non mi emoziona nel senso che puoi credere tu: l’ansia e la trepidazione che provo sono le stesse di quando feci il primo film. Voglio dire che i successi precedenti non mi danno l’affanno di pensare: aiuto, ora pretendono da me il triplo salto mortale. Non è presunzione se ti dico che l’unica inquietudine può venirmi dal timore che il film sia equivocato: non certo dall’idea che la gente si aspetti da me più di quanto io possa dare. Perché dovrei preoccuparmi di non deludere quei tipi che mi guardano come una soubrette che ogni volta deve salire un gradino più alto ed esibire altre piume?».
Signor Fellini, guardiamoci negli occhi: per uno cui non importa un bel niente lei ha fatto abbastanza rumore. Tutto quel mistero sulla trama perché la gente morisse di curiosità, quel fare a nascondino coi giornalisti, quel tacere perfino agli attori la parte che stavano recitando, insomma quella segretezza che era diventata come gli occhiali di Greta Garbo…
«Ah sì? Ognuno paga lo scotto dell’ambiente in cui vive: è il cinematografo che traduce tutto in forme volgari. Tesorino mio: sono abbastanza abile da inventare storie e se avessi voluto ricorrere ad accorgimenti pubblicitari… Se non ne parlavo era perché non sapevo che dirne: nemmeno oggi so cosa dirne. Non è un film di cui si possa raccontare la trama. Quando mi chiedono la trama io mi stringo nelle spalle e rispondo ecco, fai conto che una sera incontri un amico in vena di confidenze e questo amico ti narra sgangheratamente, disordinatamente, quello che fa, quello che sogna, i suoi ricordi d’infanzia, i suoi disordini sentimentali, le sue incertezze professionali, e tu lo stai a sentire, e alla fine hai ascoltato una creatura umana, e forse viene voglia anche a te di cominciare a raccontare qualcosa… Capito? È una chiacchierata confusa, caotica, una confessione fatta con abbandono, a volte perfino insopportabile…
Sì, in fondo c’è qualcosa di proustiano. Proust tradotto in cinema puro.
«Proust? Mah! Io sono molto ignorante… Che vergogna, eh? Una sana, vasta, solida, coriacea ignoranza. Non so nulla di nulla. E il discorso non vale solo pei libri. Vale anche pei film».
Lo so, lo so. Lei non va a vedere che i film di Federico Fellini. Quelli degli altri mai, vero?
«È così vero che ho il coraggio di dirlo. Non riesco a organizzarmi per il rituale che esige lo spettacolo uscire di casa, salire in macchina, sedersi fra tante persone, star lì a farsi solleticare da emozioni collettive. Se esco di casa per andare al cinema o a teatro, stai sicura che durante il tragitto vedo qualcosa che mi interessa di più. Se poi vedo il film di un altro e mi accorgo che quest’altro ha realizzato una cosa che volevo realizzare io… ci resto male. Certo ho visto i film di Charlot: che artista favoloso. Ma per i quarantenni come me Charlot appartiene alla mitologia della nostra vita: il babbo, la mamma, la maestra, il prete, Charlot. Charlot… l’ho incontrato una volta a Parigi. Aveva visto La strada: mi fece, credo, complimenti a mezza voce. Mi parve piccolissimo, con due manine piccine piccine. Parlava un francese che non capivo, lui non capiva il mio inglese: mi sentivo a disagio, in soggezione…»
Lasciamo stare Charlot: siamo qui per Fellini. Il protagonista di Otto e mezzo…
«L’hai visto? T’è piaciuto?»
Certo che m’è piaciuto. Che film triste, però. Tutti quei vecchi, tutti quei preti, quell’aria di disfacimento e di morte… Sono morti anche i vivi, in quel film.
«Ma allora hai capito poco, non è un film triste. È un film dolce, aurorale. Malinconico, semmai. Però la malinconia è uno stato d’animo nobilissimo: il più nutriente e il più fertile…»
Se le fa piacere: diciamo pure che ho capito poco.
«Tesorino, hai fame? Hai sete? Vuoi sdraiarti un po’?»
Non ho fame, non ho sete, e non voglio sdraiarmi per niente. Mi lasci continuare, la prego. Dunque dicevo: il protagonista del film ha quarantatré anni, è un regista, ed è Federico Fellini. Anche se lei lo ha chiamato Guido Anselmi…
«Davvero non hai bisogno di nulla? Un caffè…»
Non ho bisogno di nulla. Per favore, signor Fellini: lasci stare il mio magnetofono. Se continua a toccarlo, lo rompe. Perché vuole romperlo? Tanto lo sappiamo tutti, ormai, che il suo film è autobiografico: sfacciatamente, indiscutibilmente autobiografico. Perfino il cappello di Guido Anselmi è identico al suo. Perfino il modo di buttarsi il cappotto sulle spalle, di camminare, di sorridere. Lasci stare il mio magnetofono. Perfino…
«Ma quello è un regista fallito, che sta fallendo. Oh, bimba!? Ti sembro un regista fallito, io? Guido Anselmi ha quarantatré anni come me, va bene, ma potrebbe averne quarantuno o quarantasette o trentacinque come quell’altro grande regista. “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai in una selva oscura / ché la diritta via era smarrita”. È un uomo perduto in una boscaglia intricata e buia…
… perfino nella stessa capacità di dire bugie. «Menti come respiri», gli dice sua moglie. Oddio: non che a somigliargli lei faccia una gran bella figura. Il ritrattino è spietato: «Pulcinella ipocrita e vigliacco». «Debole, abulico e mistificatore». «Presuntuoso, incerto e imbroglione». «Un tipo che non vuol bene a nessuno». E, per finire, quella ammissione terribile: «Non ho proprio nulla da dire ma lo dico lo stesso».
«E va bene. E con questo? Con questo non si può certo dire che il film sia autobiografico: in senso spicciolo. E se anche lo fosse? Non voglio fornire allo spettatore una interpretazione in chiave aneddotica, biografica. In chiave biografica il film diventerebbe solo una inutile, fastidiosa esibizione narcisistica.
Magari lo è. Una splendida, impudica chiacchierata narcisistica.
«Mi dispiace, ma non credo che sia così. È la storia di un uomo come ce ne sono tanti: la storia di un uomo giunto a un punto di ristagno, a un ingorgo totale che lo strozza. Io spero che dopo i primi cento metri lo spettatore dimentichi che Guido è un regista, cioè un tipo che fa un mestiere insolito, e riconosca in Guido le proprie paure, i propri dubbi, le proprie canagliate, viltà, ambiguità, ipocrisie: tutte cose che sono uguali in un regista come in un avvocato padre di famiglia».
Senta, signor Fellini: l’avvocato padre di famiglia potrà anche riconoscersi in Guido, però resta il fatto che Guido è Fellini. Ma via: sembra un atto testamentario, quel film, un tirare le somme. A parte il fatto che tirare le somme della propria vita a quarantatré anni mi sembra un po’ esagerato.
«Perché? Meglio tirarle presto che tirarle tardi: quando non c’è più tempo di cambiar nulla. Quarantatré anni non sono un’età precoce per tirare le somme della propria vita. Proprio per questo il film mi ha fatto un gran bene: mi sento come liberato, ora, con una gran voglia di lavorare. È un film testamentario, hai ragione, eppure non mi ha svuotato. Al contrario, mi ha arricchito: fosse per me, ricomincerei a farne un altro domattina. Davvero. E certo se mi dicono che bravo Fellini, che ingegno, mi fa un gran piacere: ma non sono i complimenti che cerco con Otto e mezzo. Vorrei… vorrei che questo senso liberatorio si trasmettesse a chi lo va a vedere, che dopo averlo visto la gente si sentisse più libera, avesse il presentimento di qualche cosa di gioioso…».
Oddio, signor Fellini: non mi venga a dire che a lei importa della gente che va a vedere il suo film. Se c’è un uomo che se ne frega del prossimo e non ha spiriti evangelici, questo è proprio lei. Lasciamo perdere, per carità, e prendiamo atto dell’importante ammissione: le somme che tira in Otto e mezzo sono quelle della sua vita e non di un personaggio fantastico.
«Uffa, che noiosina. Ma cosa vuoi che ti dica? Tante cose… si capisce… son vere. Quello che è successo nel film è successo un po’ a me… a un certo punto non sapevo più cosa fare, non mi ricordavo più niente. Lavoravo con Flajano, Pinelli, Rondi, senza convinzione. Avevo l’episodio della Saraghina, quello del cardinale, ma erano cose staccate, che nuotavano nel vuoto: e non mi ricordavo più niente, davvero. Quelli della produzione stavano lì, mi guardavano con occhi imploranti, sospettosi, e io avevo una gran voglia di dire al produttore lasciamo perdere, non facciamolo più questo film. Poi m’è sembrato che questo smarrimento fosse un invito, l’aiuto di un collaboratore invisibile che mi diceva racconta la verità, racconta questo. E così m’è venuta l’idea di fare un film su un regista che vuol fare un film e non se lo ricorda più. Sì, Guido Anselmi non fa che vivere ciò che ho vissuto in parte anch’io in questo film. E la conclusione, se conclusione si può chiamare, è questa: non bisogna accanirsi nel capire ma tentar di sentire, con abbandono. Bisogna accettare se stessi: io sono questo e sono contento di essere questo. Voglio smetterla di costruire miti sopra di me, voglio vedermi come sono: bugiardo, incoerente, ipocrita, vile… Voglio piantarla di problematizzare la vita, voglio mettermi in condizioni di amarla, di saper amare tutto. Parlo sempre di Guido, s’intende… E insomma lo dice anche sant’Agostino: “Ama e fai quello che vuoi”. Be’, non dice proprio così ma quasi…»
Per uno che non ha letto nulla, mica male la citazione di sant’Agostino.
«È che ogni tanto mi capita di entrare in libreria, di aprire un libro e di buttare gli occhi sopra una pagina che dice una cosa così. Poi, magari quella cosa così non la capisco neanche, subito…»
Bugiardo. Mi dica piuttosto come mai non ha più scelto Laurence Olivier per il ruolo di Federico, pardon, di Guido. Sarebbe stato perfetto.
«Laurence Olivier… Un inglese, un baronetto, un grandissimo attore. Come si fa? Ti intimidisce. Io avevo bisogno di un italiano, di un amico che accettasse con umiltà di essere come un’ombra rispettosa, che non venisse fuori in modo eccessivo. Così ho preso Mastroianni, lo conoscevo già, ed è stato bravissimo: così allusivo, discreto, simpatico, antipatico, tenero, prepotente. C’è e non c’è. Perfetto».
Già, lei si affeziona agli attori che adopra. E Giulietta? L’ha persa per la strada, Giulietta?
«Ho un paio di film in testa: che derivano da Otto e mezzo come la pera dal pero. Nel prossimo c’è anche Giulietta. Giulietta per me è un personaggio evocatore di un mondo che non si è scolorito o intiepidito: riprenderò quel personaggio con nuova voglia, nuova fantasia. Girerò questi due film in Italia… In America continuano a rivolgermi inviti, a offrirmi somme da capogiro, ma perché dovrei andare fuori? Non ho bisogno di stimoli esteriori: il mio paese, le mie campagne, la gente che conosco è ancora sufficiente a stimolarmi, che ci vo a fare a New York o a Bangkok. Sono un pessimo viaggiatore, quando viaggio tutto diventa un caleidoscopio di colori e di suoni, non capisco nulla, torno sempre con un dettaglio inutile o straziante. E poi come ci si può abbandonare a un viaggio se devi dare notizie a chi è rimasto, e infine devi tornare indietro? Forse mi piacerebbe andare in Egitto, in India: ma ci penso stando seduto. Il mio posto è in questa Italia cattolica».
Sì, in fondo lei è un inguaribile cattolico: o, almeno, assai più legato al cattolicesimo di quanto si creda. Lo si capisce bene anche da questo film su cui le autorità ecclesiastiche non han trovato a ridire.
«Ma tu conosci qualche italiano che sia completamente laico?! Io no. Ma come è possibile? Ce l’abbiamo nel sangue, il cattolicesimo, da secoli. Quanti? Il tentativo di liberarsene è un tentativo necessario, nobilissimo, che tutti dobbiamo fare: ma dimostra che l’ammaccatura esiste, evidente. Se non esistesse l’oggetto della rivolta, perché dovremmo ribellarci? Guido è una vittima di un cattolicesimo medievale che tende a umiliare l’uomo anziché restituirlo alla sua grandezza divina, alla sua dignità: quel cattolicesimo che ha riempito manicomi e ospedali e cimiteri di suicidi, che ha mostruosamente partorito una umanità infelice, separato lo spirito dal corpo che invece sono una cosa sola. Insomma quel cattolicesimo degenerato che questo Papa combatte in maniera così eroica e stupenda. Ti è piaciuto l’episodio del bambino e di Saraghina?».
È indiscutibilmente il più bello del film. La punizione del bambino, soprattutto. Quei preti gelidi, senza pietà. M’è sembrato di rivedere certi disegni del Goya: l’Inquisizione, la strega martoriata… Tanto più patetico in quanto la strega, qui, era un bambino. Era lei quel bambino?
«In un collegio a quel modo non ci sono mai stato, un’estate però sono stato in un convento di salesiani ed era press’a poco così. Sai, questa educazione basata sulla mortificazione del corpo, le bacchettate sui geloni, che male, l’esser costretto a inginocchiarsi sul granoturco, che male, e quel sentirsi continuamente giudicati da Dio… Tu credi d’essere solo, ti ripetono, ma Dio ti vede, ti vede sempre. Sai, queste in un bambino sono vere ferite e se ne guarisce a fatica. No, non riesco a scindere dalla mia vita il ricordo delle chiese, delle monache, dei preti, le voci dal pulpito, le voci dal confessionale, i funerali… Ma quale italiano può fare a meno di questo paesaggio, di questa coreografia?»
Eppure, malgrado questa educazione spietata, terrorizzante, lei riesce ancora a pregare. Vero?
«Certamente. Ché tu non preghi? La preghiera è un colloquio con se stessi, con la tua parte più segreta, più genuina, più misteriosa, e quando ti rivolgi a quella c’è sempre il caso che venga fuori qualcosa di buono perché chiedi aiuto a ciò che v’è di più prezioso in te, di più vergine… Oddio, piantiamola: dette così certe cose diventano ridicole. Io volevo dire soltanto che non capisco come una non possa pregare, non essere affascinata dal mistero, è così stupido chiudere gli occhi al mistero, così disumano, un atteggiamento da bestie. Il mistero di tutto… il silenzio che ti circonda e diventa chiarore… Oria’! Ma che mi fai dire?!»
Io nulla: è lei che parla. E sa chi mi ricorda quando parla così? Ingmar Bergman. Straordinario quanto vi sia in comune tra lei e Bergman: lei così romagnolo, Bergman così nordico, lei così sanguigno, Bergman così ascetico. A parte i vostri film, che mi sembra abbiano molti punti in contatto, anche lui non riesce a far niente fuori del proprio paese, anche lui è un peccatore ossessionato dal peccato…
«Bergman, sì: di lui ho visto anche un film, Il volto. Mi è piaciuto moltissimo. Bergman è il più grande autore cinematografico che esista oggi».
Dopo Fellini? Prima di Fellini? O contemporaneamente a Fellini?
«Mascalzona, che ne so? Come faccio a dirlo? Per me è un fratello. Egli è ciò che deve essere un uomo che parla agli altri: la tonaca del profeta, e in testa il cilindro coi lustrini del pagliaccio. Ecco: Bergman ha tutti e due: la tonaca e i lustrini».
E Federico Fellini?
«Mah! Forse io ho meno tonaca e più lustrini».
Interessante: quando intervistai Bergman, anche lui mi parlò a lungo di lei. Voleva sapere un mucchio di cose: come viveva e come parlava…
«E tu, le solite balle: chissà che gli hai detto. Le mie bugie mischiate alle tue… Oddio! Mi piacerebbe conoscerlo, Bergman. Fino ad oggi ci siamo scritti soltanto. C’è un produttore simpatico e irresponsabile che voleva fare un film a episodi con me, Bergman e Kurosawa: quello straordinario regista di I sette samurai. Mi pregò di scrivere a Bergman al quale del resto avevo sempre mandato saluti attraverso giornalisti svedesi. Così gli scrissi caro Bergman, ti ammiro tanto e ti voglio bene come ad un fratellino, c’è questo produttore che vuol fare questa cosa, secondo me è un progetto un po’ avventato ma proprio perché pazzo vale la pena di tentare. Bergman mi rispose una bellissima lettera dove diceva che avrebbe fatto questa cosa con gioia e infatti non s’è fatto ancora nulla».
Un’altra caratteristica di Bergman è che se ne frega completamente di ciò che scrivono i critici su di lui: ma in questo non vi assomigliate. So che lei ci bada parecchio a certe critiche con le parole difficili che finiscono in ismi, asmi, e parlano di dialettica, etica, estetica… Qualcosa del genere: legga un po’ questo articolo.
«Ma che dice questo qui? Ma che vuole? Non ha mai capito i miei film nonostante gli piacciano: ne sono sicuro. E a dirtela chiara mi dispiace che gli piacciano. Io ho un vocabolario scarso, dinanzi a queste parole resto sconfortato. Del resto il cinema, tranne cinque o sei confortanti eccezioni, ha la critica che si merita: è un’arte giovane, sgangherata. Tutti fanno la critica in senso libresco, mai umanisticamente, ma che me ne importa? Io non sono uno di quelli che corrono all’edicola per sapere cosa ha scritto il critico Tale; a proposito, cosa ha scritto Marotta di Otto e mezzo? Io leggo volentieri quelli che parlano bene di me. So bene che anche la critica negativa può essere costruttiva, ma la sola che capisco è quella materna, fatta di bacetti, di carezze, di paroline lusinghiere…»
Infatti, nel film, quel rompiscatole che non le dà i bacetti finisce impiccato. Quante volte ha sognato di impiccare chi non le dice che è bravo, signor Fellini?
«Tante volte. La critica espressa così è per me pericolosissima perché uccide la spontaneità».
Io mi chiedo cosa avrebbe potuto fare lei se il cinema non fosse esistito, insomma se fosse nato quando il cinema non esisteva. Il confine tra fantasia e realtà è così labile in lei…
«Cosa avrei potuto fare? Non lo so davvero. Scrivere, no. Scrivere è una disciplina ascetica, lo scrittore deve essere circondato di solitudine, di silenzio: a ciò non potrei abituarmi. Di sicuro mi sarei dedicato a qualcosa che avesse avuto a che fare con lo spettacolo o avrei tentato di inventare il cinematografo. Il cinema mi piace perché col cinema ti esprimi mentre vivi, racconti il viaggio mentre lo fai. Sono fortunatissimo, anche in questo: sono stato portato per mano a scegliere un mestiere che è l’unico mestiere per me, l’unico che mi permetta di realizzarmi nella forma più gioiosa, più immediata…»
Certo non lo vedo un Fellini nascosto, pensatore solitario. Noi dei giornali abbiamo inventato la divinizzazione dei registi: ma a pochi tale divinizzazione si addice quanto a lei. Lei ha sempre bisogno di un palcoscenico che la illumini, di un’orchestra che le suoni una marcetta.
«Può anche darsi che esista questa componente di vanità: d’altra parte lo spettacolo si fa coi riflettori accesi. Però ti dirò che sono assai timido. Sì, lo sono anche se non ci credi e sghignazzi, proprio timido. E ne sono contento perché non credo che possa esistere un artista senza la timidezza, la timidezza è una sorgente di ricchezza straordinaria: un artista è fatto di complessi».
E quell’altra ricchezza? Quella terrestre, volgare, fatta di un delizioso conto in banca? Lei è ricco, ormai.
«No, e poi no, e poi un’altra volta no. Tesorino mio, ma quante volte devo ripeterti che il produttore della Dolce vita non sono io? Sai, a me importa poco dei soldi. Mi servono, ecco tutto. Che me ne faccio di una villa con la piscina? L’importante è non aver debiti».
Senta, signor Fellini: il cardinale del film dice una agghiacciante realtà. «Nessuno viene al mondo per essere felice». Lei è felice? È almeno soddisfatto?
«Felice? Mah!… Sì… Sto volentieri al mondo, sto volentieri con gli altri. Mi interessa quel che mi succede, lavoro volentieri: tanto più che il mio non mi sembra neanche un lavoro. Soddisfatto… Mah! Spero di non essere mai completamente soddisfatto: perché allora sarebbe la fine. M’è andata benissimo, certo. Ma è andata come doveva andare».
Vuol dire che le sembra giusto avere avuto il successo che ha avuto? Vuol dire che non ha alcun dubbio sulla legittimità di questo successo? Vuol dire che non giudica con nessuna modestia il fatto d’essere esaltato come «il fenomeno cinematografico più importante del nostro tempo»? Che insomma trova sacrosanto il trionfo della Dolce vita, questa venerazione da Greta Garbo che la circonda, il particolare che basti un annuncio sul giornale perché orde di pazzi le vengano a offrire pei suoi film nonne moribonde, zie paralitiche, mogli virtuose?
«Come faccio io a dire fino a che punto questo è giusto o ingiusto? I dubbi ce li ho durante il lavoro e sono i dubbi di uno che crea, che inventa. Dopo, quando il film è finito, non riesco ad oggettivarmi, a tenere un atteggiamento distaccato. Sarebbe come se tu mi invitassi a parlare della mia vita, di un amore, di una avventura, di un viaggio. Come la giudico? Mah! Non giudico, dico che mi era necessario. Tutto ciò che ci è capitato di bene e di male era necessario. La dolce vita è un film che ho fatto tanti anni fa: mi è stato più faticoso liberarmene perché era una specie di mostro, che continuava a crescere. Se il suo successo è giustificato non lo so: evidentemente il film aveva una carica che giustificava tale emozione. Quanto alle nonne moribonde, alle zie paralitiche che mi offrono pei film… Io sono un romantico: mi piace vedere la vita sempre in chiave di fantasia. Potrei dunque dire che il cinema è una sirena dalla seduzione infinita e per questo gli regalano le nonne moribonde. Invece mi piace pensare che la gente me le porta per aiutarmi a fare un film. Toh! Piglia».
Che sublime diplomatico. Che celestiale mistificatore. Questa non è risposta. Recentemente, se ben ricordo, noi due abbiamo avuto un violento scontro telefonico: in seguito al quale le risponderò sempre col lei. E in quell’occasione sì che mi ha dato una risposta. Io le ho ricordato che i giornalisti l’hanno sempre trattata con stima ed affetto e lei ha replicato che i giornalisti l’avevano sempre trattata come si merita perché lei è Federico Fellini ed un grande artista.
«Disgraziata. Screanzata. Ballista. Maleducata».
Maestro, queste parolacce bisognerà toglierle dai testi scolastici quando i bambini delle elementari studieranno la vita di Giuseppe Verdi. Pardon, di Federico Fellini.
FEDERICO FELLINI. Disgraziata. Screanzata. Ballista. Maleducata.
Perché? Anche Verdi era bravo, sa? Per la prima delle sue opere accadeva esattamente quello che accade per le prime dei suoi film. Io credo che solo per La Traviata gli italiani abbiano fatto il fracasso che hanno fatto per il suo Otto e mezzo: con le poltrone prenotate da mesi, le signore con l’abito nuovo, i critici che intrecciano corone di alloro…
«Già. Come se Lo Sceicco Bianco non fosse stato un insuccesso clamoroso, e Il bidone non fosse stato accolto con freddezza glaciale, e La strada non avesse ricevuto sghignazzate e insolenze. E La dolce vita? Cosa credi, ragazzi’, che abbia avuto solo lusinghe ed elogi?»
Oddio! A Milano volò uno sputacchio. A Roma venne la Celere. Ma anche a Verdi gettavano ogni tanto verdura e uova fresche. Signor Fellini! Non sarà mica preoccupato? Mi scusi, sa: ma a vederlo così placidamente disteso sul letto, con la sua aria da gatto soriano, mi sembrava tanto tranquillo…
«Son tranquillissimo. Dopotutto ho fatto quel che avevo in testa di fare: riesco a non preoccuparmi troppo che il film possa piacere o no. L’attesa non mi lascia indifferente, è ovvio. Ma non mi emoziona nel senso che puoi credere tu: l’ansia e la trepidazione che provo sono le stesse di quando feci il primo film. Voglio dire che i successi precedenti non mi danno l’affanno di pensare: aiuto, ora pretendono da me il triplo salto mortale. Non è presunzione se ti dico che l’unica inquietudine può venirmi dal timore che il film sia equivocato: non certo dall’idea che la gente si aspetti da me più di quanto io possa dare. Perché dovrei preoccuparmi di non deludere quei tipi che mi guardano come una soubrette che ogni volta deve salire un gradino più alto ed esibire altre piume?».
Signor Fellini, guardiamoci negli occhi: per uno cui non importa un bel niente lei ha fatto abbastanza rumore. Tutto quel mistero sulla trama perché la gente morisse di curiosità, quel fare a nascondino coi giornalisti, quel tacere perfino agli attori la parte che stavano recitando, insomma quella segretezza che era diventata come gli occhiali di Greta Garbo…
«Ah sì? Ognuno paga lo scotto dell’ambiente in cui vive: è il cinematografo che traduce tutto in forme volgari. Tesorino mio: sono abbastanza abile da inventare storie e se avessi voluto ricorrere ad accorgimenti pubblicitari… Se non ne parlavo era perché non sapevo che dirne: nemmeno oggi so cosa dirne. Non è un film di cui si possa raccontare la trama. Quando mi chiedono la trama io mi stringo nelle spalle e rispondo ecco, fai conto che una sera incontri un amico in vena di confidenze e questo amico ti narra sgangheratamente, disordinatamente, quello che fa, quello che sogna, i suoi ricordi d’infanzia, i suoi disordini sentimentali, le sue incertezze professionali, e tu lo stai a sentire, e alla fine hai ascoltato una creatura umana, e forse viene voglia anche a te di cominciare a raccontare qualcosa… Capito? È una chiacchierata confusa, caotica, una confessione fatta con abbandono, a volte perfino insopportabile…
Sì, in fondo c’è qualcosa di proustiano. Proust tradotto in cinema puro.
«Proust? Mah! Io sono molto ignorante… Che vergogna, eh? Una sana, vasta, solida, coriacea ignoranza. Non so nulla di nulla. E il discorso non vale solo pei libri. Vale anche pei film».
Lo so, lo so. Lei non va a vedere che i film di Federico Fellini. Quelli degli altri mai, vero?
«È così vero che ho il coraggio di dirlo. Non riesco a organizzarmi per il rituale che esige lo spettacolo uscire di casa, salire in macchina, sedersi fra tante persone, star lì a farsi solleticare da emozioni collettive. Se esco di casa per andare al cinema o a teatro, stai sicura che durante il tragitto vedo qualcosa che mi interessa di più. Se poi vedo il film di un altro e mi accorgo che quest’altro ha realizzato una cosa che volevo realizzare io… ci resto male. Certo ho visto i film di Charlot: che artista favoloso. Ma per i quarantenni come me Charlot appartiene alla mitologia della nostra vita: il babbo, la mamma, la maestra, il prete, Charlot. Charlot… l’ho incontrato una volta a Parigi. Aveva visto La strada: mi fece, credo, complimenti a mezza voce. Mi parve piccolissimo, con due manine piccine piccine. Parlava un francese che non capivo, lui non capiva il mio inglese: mi sentivo a disagio, in soggezione…»
Lasciamo stare Charlot: siamo qui per Fellini. Il protagonista di Otto e mezzo…
«L’hai visto? T’è piaciuto?»
Certo che m’è piaciuto. Che film triste, però. Tutti quei vecchi, tutti quei preti, quell’aria di disfacimento e di morte… Sono morti anche i vivi, in quel film.
«Ma allora hai capito poco, non è un film triste. È un film dolce, aurorale. Malinconico, semmai. Però la malinconia è uno stato d’animo nobilissimo: il più nutriente e il più fertile…»
Se le fa piacere: diciamo pure che ho capito poco.
«Tesorino, hai fame? Hai sete? Vuoi sdraiarti un po’?»
Non ho fame, non ho sete, e non voglio sdraiarmi per niente. Mi lasci continuare, la prego. Dunque dicevo: il protagonista del film ha quarantatré anni, è un regista, ed è Federico Fellini. Anche se lei lo ha chiamato Guido Anselmi…
«Davvero non hai bisogno di nulla? Un caffè…»
Non ho bisogno di nulla. Per favore, signor Fellini: lasci stare il mio magnetofono. Se continua a toccarlo, lo rompe. Perché vuole romperlo? Tanto lo sappiamo tutti, ormai, che il suo film è autobiografico: sfacciatamente, indiscutibilmente autobiografico. Perfino il cappello di Guido Anselmi è identico al suo. Perfino il modo di buttarsi il cappotto sulle spalle, di camminare, di sorridere. Lasci stare il mio magnetofono. Perfino…
«Ma quello è un regista fallito, che sta fallendo. Oh, bimba!? Ti sembro un regista fallito, io? Guido Anselmi ha quarantatré anni come me, va bene, ma potrebbe averne quarantuno o quarantasette o trentacinque come quell’altro grande regista. “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai in una selva oscura / ché la diritta via era smarrita”. È un uomo perduto in una boscaglia intricata e buia…
… perfino nella stessa capacità di dire bugie. «Menti come respiri», gli dice sua moglie. Oddio: non che a somigliargli lei faccia una gran bella figura. Il ritrattino è spietato: «Pulcinella ipocrita e vigliacco». «Debole, abulico e mistificatore». «Presuntuoso, incerto e imbroglione». «Un tipo che non vuol bene a nessuno». E, per finire, quella ammissione terribile: «Non ho proprio nulla da dire ma lo dico lo stesso».
«E va bene. E con questo? Con questo non si può certo dire che il film sia autobiografico: in senso spicciolo. E se anche lo fosse? Non voglio fornire allo spettatore una interpretazione in chiave aneddotica, biografica. In chiave biografica il film diventerebbe solo una inutile, fastidiosa esibizione narcisistica.
Magari lo è. Una splendida, impudica chiacchierata narcisistica.
«Mi dispiace, ma non credo che sia così. È la storia di un uomo come ce ne sono tanti: la storia di un uomo giunto a un punto di ristagno, a un ingorgo totale che lo strozza. Io spero che dopo i primi cento metri lo spettatore dimentichi che Guido è un regista, cioè un tipo che fa un mestiere insolito, e riconosca in Guido le proprie paure, i propri dubbi, le proprie canagliate, viltà, ambiguità, ipocrisie: tutte cose che sono uguali in un regista come in un avvocato padre di famiglia».
Senta, signor Fellini: l’avvocato padre di famiglia potrà anche riconoscersi in Guido, però resta il fatto che Guido è Fellini. Ma via: sembra un atto testamentario, quel film, un tirare le somme. A parte il fatto che tirare le somme della propria vita a quarantatré anni mi sembra un po’ esagerato.
«Perché? Meglio tirarle presto che tirarle tardi: quando non c’è più tempo di cambiar nulla. Quarantatré anni non sono un’età precoce per tirare le somme della propria vita. Proprio per questo il film mi ha fatto un gran bene: mi sento come liberato, ora, con una gran voglia di lavorare. È un film testamentario, hai ragione, eppure non mi ha svuotato. Al contrario, mi ha arricchito: fosse per me, ricomincerei a farne un altro domattina. Davvero. E certo se mi dicono che bravo Fellini, che ingegno, mi fa un gran piacere: ma non sono i complimenti che cerco con Otto e mezzo. Vorrei… vorrei che questo senso liberatorio si trasmettesse a chi lo va a vedere, che dopo averlo visto la gente si sentisse più libera, avesse il presentimento di qualche cosa di gioioso…».
Oddio, signor Fellini: non mi venga a dire che a lei importa della gente che va a vedere il suo film. Se c’è un uomo che se ne frega del prossimo e non ha spiriti evangelici, questo è proprio lei. Lasciamo perdere, per carità, e prendiamo atto dell’importante ammissione: le somme che tira in Otto e mezzo sono quelle della sua vita e non di un personaggio fantastico.
«Uffa, che noiosina. Ma cosa vuoi che ti dica? Tante cose… si capisce… son vere. Quello che è successo nel film è successo un po’ a me… a un certo punto non sapevo più cosa fare, non mi ricordavo più niente. Lavoravo con Flajano, Pinelli, Rondi, senza convinzione. Avevo l’episodio della Saraghina, quello del cardinale, ma erano cose staccate, che nuotavano nel vuoto: e non mi ricordavo più niente, davvero. Quelli della produzione stavano lì, mi guardavano con occhi imploranti, sospettosi, e io avevo una gran voglia di dire al produttore lasciamo perdere, non facciamolo più questo film. Poi m’è sembrato che questo smarrimento fosse un invito, l’aiuto di un collaboratore invisibile che mi diceva racconta la verità, racconta questo. E così m’è venuta l’idea di fare un film su un regista che vuol fare un film e non se lo ricorda più. Sì, Guido Anselmi non fa che vivere ciò che ho vissuto in parte anch’io in questo film. E la conclusione, se conclusione si può chiamare, è questa: non bisogna accanirsi nel capire ma tentar di sentire, con abbandono. Bisogna accettare se stessi: io sono questo e sono contento di essere questo. Voglio smetterla di costruire miti sopra di me, voglio vedermi come sono: bugiardo, incoerente, ipocrita, vile… Voglio piantarla di problematizzare la vita, voglio mettermi in condizioni di amarla, di saper amare tutto. Parlo sempre di Guido, s’intende… E insomma lo dice anche sant’Agostino: “Ama e fai quello che vuoi”. Be’, non dice proprio così ma quasi…»
Per uno che non ha letto nulla, mica male la citazione di sant’Agostino.
«È che ogni tanto mi capita di entrare in libreria, di aprire un libro e di buttare gli occhi sopra una pagina che dice una cosa così. Poi, magari quella cosa così non la capisco neanche, subito…»
Bugiardo. Mi dica piuttosto come mai non ha più scelto Laurence Olivier per il ruolo di Federico, pardon, di Guido. Sarebbe stato perfetto.
«Laurence Olivier… Un inglese, un baronetto, un grandissimo attore. Come si fa? Ti intimidisce. Io avevo bisogno di un italiano, di un amico che accettasse con umiltà di essere come un’ombra rispettosa, che non venisse fuori in modo eccessivo. Così ho preso Mastroianni, lo conoscevo già, ed è stato bravissimo: così allusivo, discreto, simpatico, antipatico, tenero, prepotente. C’è e non c’è. Perfetto».
Già, lei si affeziona agli attori che adopra. E Giulietta? L’ha persa per la strada, Giulietta?
«Ho un paio di film in testa: che derivano da Otto e mezzo come la pera dal pero. Nel prossimo c’è anche Giulietta. Giulietta per me è un personaggio evocatore di un mondo che non si è scolorito o intiepidito: riprenderò quel personaggio con nuova voglia, nuova fantasia. Girerò questi due film in Italia… In America continuano a rivolgermi inviti, a offrirmi somme da capogiro, ma perché dovrei andare fuori? Non ho bisogno di stimoli esteriori: il mio paese, le mie campagne, la gente che conosco è ancora sufficiente a stimolarmi, che ci vo a fare a New York o a Bangkok. Sono un pessimo viaggiatore, quando viaggio tutto diventa un caleidoscopio di colori e di suoni, non capisco nulla, torno sempre con un dettaglio inutile o straziante. E poi come ci si può abbandonare a un viaggio se devi dare notizie a chi è rimasto, e infine devi tornare indietro? Forse mi piacerebbe andare in Egitto, in India: ma ci penso stando seduto. Il mio posto è in questa Italia cattolica».
Sì, in fondo lei è un inguaribile cattolico: o, almeno, assai più legato al cattolicesimo di quanto si creda. Lo si capisce bene anche da questo film su cui le autorità ecclesiastiche non han trovato a ridire.
«Ma tu conosci qualche italiano che sia completamente laico?! Io no. Ma come è possibile? Ce l’abbiamo nel sangue, il cattolicesimo, da secoli. Quanti? Il tentativo di liberarsene è un tentativo necessario, nobilissimo, che tutti dobbiamo fare: ma dimostra che l’ammaccatura esiste, evidente. Se non esistesse l’oggetto della rivolta, perché dovremmo ribellarci? Guido è una vittima di un cattolicesimo medievale che tende a umiliare l’uomo anziché restituirlo alla sua grandezza divina, alla sua dignità: quel cattolicesimo che ha riempito manicomi e ospedali e cimiteri di suicidi, che ha mostruosamente partorito una umanità infelice, separato lo spirito dal corpo che invece sono una cosa sola. Insomma quel cattolicesimo degenerato che questo Papa combatte in maniera così eroica e stupenda. Ti è piaciuto l’episodio del bambino e di Saraghina?».
È indiscutibilmente il più bello del film. La punizione del bambino, soprattutto. Quei preti gelidi, senza pietà. M’è sembrato di rivedere certi disegni del Goya: l’Inquisizione, la strega martoriata… Tanto più patetico in quanto la strega, qui, era un bambino. Era lei quel bambino?
«In un collegio a quel modo non ci sono mai stato, un’estate però sono stato in un convento di salesiani ed era press’a poco così. Sai, questa educazione basata sulla mortificazione del corpo, le bacchettate sui geloni, che male, l’esser costretto a inginocchiarsi sul granoturco, che male, e quel sentirsi continuamente giudicati da Dio… Tu credi d’essere solo, ti ripetono, ma Dio ti vede, ti vede sempre. Sai, queste in un bambino sono vere ferite e se ne guarisce a fatica. No, non riesco a scindere dalla mia vita il ricordo delle chiese, delle monache, dei preti, le voci dal pulpito, le voci dal confessionale, i funerali… Ma quale italiano può fare a meno di questo paesaggio, di questa coreografia?»
Eppure, malgrado questa educazione spietata, terrorizzante, lei riesce ancora a pregare. Vero?
«Certamente. Ché tu non preghi? La preghiera è un colloquio con se stessi, con la tua parte più segreta, più genuina, più misteriosa, e quando ti rivolgi a quella c’è sempre il caso che venga fuori qualcosa di buono perché chiedi aiuto a ciò che v’è di più prezioso in te, di più vergine… Oddio, piantiamola: dette così certe cose diventano ridicole. Io volevo dire soltanto che non capisco come una non possa pregare, non essere affascinata dal mistero, è così stupido chiudere gli occhi al mistero, così disumano, un atteggiamento da bestie. Il mistero di tutto… il silenzio che ti circonda e diventa chiarore… Oria’! Ma che mi fai dire?!»
Io nulla: è lei che parla. E sa chi mi ricorda quando parla così? Ingmar Bergman. Straordinario quanto vi sia in comune tra lei e Bergman: lei così romagnolo, Bergman così nordico, lei così sanguigno, Bergman così ascetico. A parte i vostri film, che mi sembra abbiano molti punti in contatto, anche lui non riesce a far niente fuori del proprio paese, anche lui è un peccatore ossessionato dal peccato…
«Bergman, sì: di lui ho visto anche un film, Il volto. Mi è piaciuto moltissimo. Bergman è il più grande autore cinematografico che esista oggi».
Dopo Fellini? Prima di Fellini? O contemporaneamente a Fellini?
«Mascalzona, che ne so? Come faccio a dirlo? Per me è un fratello. Egli è ciò che deve essere un uomo che parla agli altri: la tonaca del profeta, e in testa il cilindro coi lustrini del pagliaccio. Ecco: Bergman ha tutti e due: la tonaca e i lustrini».
E Federico Fellini?
«Mah! Forse io ho meno tonaca e più lustrini».
Interessante: quando intervistai Bergman, anche lui mi parlò a lungo di lei. Voleva sapere un mucchio di cose: come viveva e come parlava…
«E tu, le solite balle: chissà che gli hai detto. Le mie bugie mischiate alle tue… Oddio! Mi piacerebbe conoscerlo, Bergman. Fino ad oggi ci siamo scritti soltanto. C’è un produttore simpatico e irresponsabile che voleva fare un film a episodi con me, Bergman e Kurosawa: quello straordinario regista di I sette samurai. Mi pregò di scrivere a Bergman al quale del resto avevo sempre mandato saluti attraverso giornalisti svedesi. Così gli scrissi caro Bergman, ti ammiro tanto e ti voglio bene come ad un fratellino, c’è questo produttore che vuol fare questa cosa, secondo me è un progetto un po’ avventato ma proprio perché pazzo vale la pena di tentare. Bergman mi rispose una bellissima lettera dove diceva che avrebbe fatto questa cosa con gioia e infatti non s’è fatto ancora nulla».
Un’altra caratteristica di Bergman è che se ne frega completamente di ciò che scrivono i critici su di lui: ma in questo non vi assomigliate. So che lei ci bada parecchio a certe critiche con le parole difficili che finiscono in ismi, asmi, e parlano di dialettica, etica, estetica… Qualcosa del genere: legga un po’ questo articolo.
«Ma che dice questo qui? Ma che vuole? Non ha mai capito i miei film nonostante gli piacciano: ne sono sicuro. E a dirtela chiara mi dispiace che gli piacciano. Io ho un vocabolario scarso, dinanzi a queste parole resto sconfortato. Del resto il cinema, tranne cinque o sei confortanti eccezioni, ha la critica che si merita: è un’arte giovane, sgangherata. Tutti fanno la critica in senso libresco, mai umanisticamente, ma che me ne importa? Io non sono uno di quelli che corrono all’edicola per sapere cosa ha scritto il critico Tale; a proposito, cosa ha scritto Marotta di Otto e mezzo? Io leggo volentieri quelli che parlano bene di me. So bene che anche la critica negativa può essere costruttiva, ma la sola che capisco è quella materna, fatta di bacetti, di carezze, di paroline lusinghiere…»
Infatti, nel film, quel rompiscatole che non le dà i bacetti finisce impiccato. Quante volte ha sognato di impiccare chi non le dice che è bravo, signor Fellini?
«Tante volte. La critica espressa così è per me pericolosissima perché uccide la spontaneità».
Io mi chiedo cosa avrebbe potuto fare lei se il cinema non fosse esistito, insomma se fosse nato quando il cinema non esisteva. Il confine tra fantasia e realtà è così labile in lei…
«Cosa avrei potuto fare? Non lo so davvero. Scrivere, no. Scrivere è una disciplina ascetica, lo scrittore deve essere circondato di solitudine, di silenzio: a ciò non potrei abituarmi. Di sicuro mi sarei dedicato a qualcosa che avesse avuto a che fare con lo spettacolo o avrei tentato di inventare il cinematografo. Il cinema mi piace perché col cinema ti esprimi mentre vivi, racconti il viaggio mentre lo fai. Sono fortunatissimo, anche in questo: sono stato portato per mano a scegliere un mestiere che è l’unico mestiere per me, l’unico che mi permetta di realizzarmi nella forma più gioiosa, più immediata…»
Certo non lo vedo un Fellini nascosto, pensatore solitario. Noi dei giornali abbiamo inventato la divinizzazione dei registi: ma a pochi tale divinizzazione si addice quanto a lei. Lei ha sempre bisogno di un palcoscenico che la illumini, di un’orchestra che le suoni una marcetta.
«Può anche darsi che esista questa componente di vanità: d’altra parte lo spettacolo si fa coi riflettori accesi. Però ti dirò che sono assai timido. Sì, lo sono anche se non ci credi e sghignazzi, proprio timido. E ne sono contento perché non credo che possa esistere un artista senza la timidezza, la timidezza è una sorgente di ricchezza straordinaria: un artista è fatto di complessi».
E quell’altra ricchezza? Quella terrestre, volgare, fatta di un delizioso conto in banca? Lei è ricco, ormai.
«No, e poi no, e poi un’altra volta no. Tesorino mio, ma quante volte devo ripeterti che il produttore della Dolce vita non sono io? Sai, a me importa poco dei soldi. Mi servono, ecco tutto. Che me ne faccio di una villa con la piscina? L’importante è non aver debiti».
Senta, signor Fellini: il cardinale del film dice una agghiacciante realtà. «Nessuno viene al mondo per essere felice». Lei è felice? È almeno soddisfatto?
«Felice? Mah!… Sì… Sto volentieri al mondo, sto volentieri con gli altri. Mi interessa quel che mi succede, lavoro volentieri: tanto più che il mio non mi sembra neanche un lavoro. Soddisfatto… Mah! Spero di non essere mai completamente soddisfatto: perché allora sarebbe la fine. M’è andata benissimo, certo. Ma è andata come doveva andare».
Vuol dire che le sembra giusto avere avuto il successo che ha avuto? Vuol dire che non ha alcun dubbio sulla legittimità di questo successo? Vuol dire che non giudica con nessuna modestia il fatto d’essere esaltato come «il fenomeno cinematografico più importante del nostro tempo»? Che insomma trova sacrosanto il trionfo della Dolce vita, questa venerazione da Greta Garbo che la circonda, il particolare che basti un annuncio sul giornale perché orde di pazzi le vengano a offrire pei suoi film nonne moribonde, zie paralitiche, mogli virtuose?
«Come faccio io a dire fino a che punto questo è giusto o ingiusto? I dubbi ce li ho durante il lavoro e sono i dubbi di uno che crea, che inventa. Dopo, quando il film è finito, non riesco ad oggettivarmi, a tenere un atteggiamento distaccato. Sarebbe come se tu mi invitassi a parlare della mia vita, di un amore, di una avventura, di un viaggio. Come la giudico? Mah! Non giudico, dico che mi era necessario. Tutto ciò che ci è capitato di bene e di male era necessario. La dolce vita è un film che ho fatto tanti anni fa: mi è stato più faticoso liberarmene perché era una specie di mostro, che continuava a crescere. Se il suo successo è giustificato non lo so: evidentemente il film aveva una carica che giustificava tale emozione. Quanto alle nonne moribonde, alle zie paralitiche che mi offrono pei film… Io sono un romantico: mi piace vedere la vita sempre in chiave di fantasia. Potrei dunque dire che il cinema è una sirena dalla seduzione infinita e per questo gli regalano le nonne moribonde. Invece mi piace pensare che la gente me le porta per aiutarmi a fare un film. Toh! Piglia».
Che sublime diplomatico. Che celestiale mistificatore. Questa non è risposta. Recentemente, se ben ricordo, noi due abbiamo avuto un violento scontro telefonico: in seguito al quale le risponderò sempre col lei. E in quell’occasione sì che mi ha dato una risposta. Io le ho ricordato che i giornalisti l’hanno sempre trattata con stima ed affetto e lei ha replicato che i giornalisti l’avevano sempre trattata come si merita perché lei è Federico Fellini ed un grande artista.
«Disgraziata. Screanzata. Ballista. Maleducata».
Maestro, queste parolacce bisognerà toglierle dai testi scolastici quando i bambini delle elementari studieranno la vita di Giuseppe Verdi. Pardon, di Federico Fellini.
Oriana Fallaci
(da Oriana Fallaci Gli Antipatici Oscar Mondadori, Milano 1963)