Saint Omer , regia di Alice Diop
Racconta la vicenda giudiziaria di Laurence Coly , una giovane immigrata senegalese accusata di aver ucciso la figlia di 15 mesi abbandonandola all’arrivo dell’alta marea su una spiaggia del nord della Francia.
Il processo è osservato attraverso gli occhi di Rama, giovane scrittrice colpita dalla storia alla quale vorrebbe ispirarsi per scrivere un libro . Il film è ispirato ad un fatto di cronaca che ha sconvolto l’opinione pubblica francese, l’infanticidio commesso da Fabienne Kabou ; la regista aveva partecipato alle udienze del processo.
La regista adotta una tecnica inusuale : lunghe riprese a camera ferma nella scenografia quasi teatrale dell’aula di tribunale , per gran parte sul viso dell’imputata, in uno stile quasi documentaristico.
Le scene del processo di Laurence si alternano ai ricordi personali di Rama, in cui i primi piani e la gestualità (piuttosto che le parole) ci raccontano lentamente (ma inesorabilmente) le storie delle due protagoniste – l’una attraverso le testimonianze e l’altra attraverso i ricordi – rappresentando con sempre maggiore chiarezza le paure, le emozioni, la sensibilità, la sofferenza, che le avvicinano in un percorso di identificazione tutt’altro che casuale. Il racconto in questo modo procede da un iniziale sguardo apparentemente distaccato ed oggettivo (processuale), affronta un crescente impatto emotivo dando due diverse possibilità di lettura (quella colpevolizzante ed alienante del mostro, e quella della sofferenza e della solitudine assoluta e tragicamente invisibile a tutti) , e giunge infine ad una struggente possibilità di comprensione che commuove nel profondo proprio nella dimensione della tragedia.
Si susseguono le testimonianze del processo :
quella di Laurence , che è stata una bambina intelligente e sensibile, e si presenta come una donna impenetrabile e contradditoria, soprattutto nel suo essere condannata ad essere composta e garbata da una impronta educativa radicale, e che ben presto comunica una condizione di profonda sofferenza che non è stata drammaticamente percepita da nessuno ;
del padre di Laurence che provoca una frattura insanabile nella sua vita , negandole ogni supporto emotivo e pratico alla sua prima decisione autonoma ;
del convivente e padre (solo biologico) della piccola , falso “benefattore” opportunista che si sottrae ad ogni responsabilità ;
della madre di Laurence , sensibile ed intuitiva con tutti, ma macroscopicamente cieca nei confronti della figlia, rispetto alla quale si conferma il suoi ruolo di madre nella certezza di averle impartito “la” buona educazione , certezza che non viene neppure scalfita dalla tragedia di quanto accaduto, integralmente attribuito ad influenze malefiche (ulteriore trappola per Laurence, che rischia di declinare la sua sofferenza mentale in strategia processuale).
E questo racconto è alternato ai ricordi che sollecitano ed affiorano anche in Rama nel rapporto con la propria madre : immagini, distanze irrisolte , desideri incompresi, che diventano sempre più angoscianti anche per la sua attuale gravidanza. Come se la storia di Laurence, e soprattutto la sua solitudine ed il suo tragico epilogo, diventassero terreno di vicinanza ed identificazione per Rama : che affronta gli interrogativi, i propri vissuti di vuoto, il timore di incapacità che la gravidanza sollecita e riesce a trovare i motivi per ricomporli e a superarli ( nella ridefinizione dei propri vissuti abbandonici legati ai silenzi ed alla impenetrabilità della madre, ai quali riuscirà ad attribuire il diverso significato di una madre presente ma “distrutta dalla vita” che è in grado di pronunciare solo poche parole – “sono stanca, sono tanto stanca”).
Riflessione quindi totalmente e profondamente femminile : nei personaggi, nel linguaggio, nella potenza evocativa di alcune immagini e simboli . Le apparizioni maschili sono occasionali, per lo più insignificanti ed accessorie , oppure tragicamente assenti (l’anziano convivente) o pregiudizialmente giudicanti (il pubblico ministero) ; con la sola eccezione del compagno di Rama che riesce a mantenere una posizione accogliente e rassicurante.
I personaggi, il linguaggio, la percezione, i temi , le immagini, la sensibilità, sono tutte declinate al femminile con una potenza evocativa (ed identificativa) che mi ha fatto commuovere (e continua a farlo) :
Laurence moderna Medea ;
Rama futura madre ;
la instancabile giudice che non accetta spiegazioni superficiali e rapide ma cerca di ricostruire la verità (forse impossibile) con domande insistenti e contiene a fatica le lacrime ;
l’avvocatessa di Laurence che nella sua arringa finale riesce a individuare una possibilità di comprensione, unico momento in cui Laurence si sente vista e si abbandona per un breve momento al dolore; la piccola Elise, della quale non abbiamo nessuna immagine la cui assenza ci fa percepire la dimensione della tragedia .
Una immagine per tutte, lo sguardo alla luna capace di illuminare in modo protettivo ed universale : anche ad accompagnare Laurence e a rappresentare l’intenzione protettiva del suo tragico gesto (che viene ugualmente rappresentata anche nelle immagini del film di Pasolini).
Quindi il caso di infanticidio ci rapisce perché riesce a diventare una riflessione profondamente coinvolgente sulla maternità e sul femminile.
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