Il film si apre con alcune scene che rapidamente ci descrivono la vita di Maren : diciottenne , vive con il padre costretta ad una condizione di profondo isolamento e continua fuga, legate alla sua identità più profonda , un istinto cannibalico che si esprime per la prima volta all’età di tre anni quando divora il volto della propria amata baby sitter che vicaria l’assenza della madre ; ed è questo istinto che la condanna inesorabilmente ad una condizione di devastante solitudine.
Violando la reclusione che il padre le impone nel fallimentare tentativo di proteggerla , affamata di relazioni, Maren raggiunge una festa a casa di una compagna di scuola e – in un abbozzo di rapporto amicale a lei sconosciuto – viene travolta dalle proprie pulsioni e la aggredisce, divorandone un dito : quindi anche il padre la abbandona al suo destino, lasciandole unicamente il certificato di nascita ed una cassetta nella quale registra poche ma significative informazioni sulla sua vita .
E’ proprio il carattere “mostruoso” con il quale il racconto decide di rappresentare la identità più profonda e la diversità di Maren ad essere per me un elemento critico, che non riesco proprio a relegare al ruolo di espediente narrativo simbolico : per rappresentare questa dimensione l’autrice del libro ed il regista scelgono l’istinto cannibalico al quale la incolpevole Maren è condannata, la necessità di nutrirsi con il corpo di altri esseri umani, che può rimanere silente o repressa o rifiutata anche per anni, ma ad un certo punto prenderà il sopravvento senza possibilità di difesa. Espediente narrativo sicuramente efficace a fornire una dimensione dell’abisso, e quindi ad amplificare all’infinito l’impatto della totale ed ineludibile solitudine della protagonista ; ma le scene in cui Maren – o gli altri personaggi che riconoscerà uguali a sé – si nutrono della carne di un altro essere umano generano orrore e paura (io sono notoriamente poco coraggiosa soprattutto al cinema ed evito di guardare anche scene ben meno intense) .
Ed anche tale visione sovrappone due dimensioni che diventano pericolosamente equivalenti (diversità e mostruosità).
Maren , spaventata e disorientata, deve fuggire per non essere catturata ed imparare a sopravvivere :
inizia un viaggio prima di fuga, ma ben presto di consapevolezza e di crescita, decidendo di ricercare la propria madre. Maren è la prima ad essere spaventata da questa forza istintiva, e nel suo viaggio cerca di trovare modi e comportamenti per minimizzarne le conseguenze e saranno gli incontri con alcuni personaggi chiave, che lei riconosce come simili a sé nell’istinto cannibalico, a costruire il suo percorso di crescita : primo ed ultimo il vecchio Sully che rifugge ogni relazione, adotta macabre strategie per minimizzare le conseguenze dolorose dei propri appettiti e tiene con sè macabre memorie delle proprie vittime ; Jake e Frank Yearly che – per natura o addirittura per scelta in totale disprezzo con la propria funzione di poliziotto- rappresentano la propria visione di una vita fondata sull’istinto predatorio ; la sorella salvata da Lee, vittima innocente a rappresentare il completo dominio di Sully ; l’infelice madre di Maren sprofondata nell’ abisso del dolore e della follia.
E devo dire che Guadagnino riesce davvero a rendere in modo emozionante e coinvolgente la tremenda solitudine , il devastante abbandono anche da parte del padre, la necessità di fuga da un destino che Maren non ha la possibilità di scegliere o rifiutare, la ricerca intima e necessaria che disegna il percorso di un viaggio (esteriore ma soprattutto interiore) , l’angosciante fallimento dell’incontro con la madre e quindi l’ assenza di ogni relazione affettiva , la risonanza emotiva degli sconfinati e deserti territori americani , e finalmente il salvifico incontro con Lee che sarà il territorio della possibilità di una relazione, del rispecchiamento della propria esperienza nell’altro che conduce alla consapevolezza di sé, dell’attraversamento del dolore , della costruzione di una possibilità di scelta e di speranza .
La trasposizione diretta del desiderio di sfamarsi dal piano simbolico (affettivo) a quello reale (cannibalismo) crea un corto circuito che nei miei pensieri disturba decisamente il primo : il divorare l’altro sollecita pulsioni che abitano i nostri territori più profondi, ed anche i relativi tabu’. E scotomizzare questo cortocircuito in favore di una lettura solo simbolica – un po’ come ci hanno insegnato le terribili storie raccontate nelle favole- mi sembra richieda una completa rimozione dell’inatteso, dell’indesiderato, del disturbante … espediente, sintassi , rimozione che non mi convince e rappresenta l’elemento disturbante : rimuovere il problema lo nasconde ma non lo risolve. La carne e il sangue poi sono un po’ troppo allarmanti per essere rimossi così facilmente .
E qui arriviamo direttamente al finale : che, nonostante le varie recensioni lette, io continuo a ricordare come un finale ambiguo lasciato volutamente aperto a diverse letture.
Maren – al termine del proprio viaggio di formazione e crescita affettiva, di scelta – riesce a sopravvivere alla morte di Sully (e fin qui poco male, vista la violenza che lo pervade, nell’ambiguità del desiderio di incontro annullato dalla incapacità a sostenere qualsiasi accenno di relazione che non sia il proprio dominio assoluto), ed anche a quella di Lee (amato, amante e generosamente disposto al proprio completo sacrificio) , si nutre di entrambi (e quindi incorpora tutto il dolore e tutto l’amore che ha incontrato) : dopo tali esperienze la scena del nuovo incontro con Lee su una collina al tramonto mi appare tragicamente come una riunione dello spirito di Maren dopo la morte di entrambi, piuttosto che come il ricordo rassicurante di una Maren ancora viva di Lee quale persona amata/amante capace del sacrificio della propria vita.
E non mi convince del tutto l’ordine finale della stanza di Maren che vorrebbe rappresentare la tranquillità della nuova sua vita conquistata, finalmente “ordinata” e “pulita” (immagine che non mi sembra di aver visto, in una rimozione al contrario probabilmente radicata in terreni depressivi) .
E devo dire che Guadagnino in tale ambiguità sceglie almeno di discostarsi dal finale pare decisamente più tragico del libro (che io non ho letto) , ove il viaggio conduce Maren ad esprimere totalmente il proprio vero istinto predatorio e non sembra sopravvivere neppure una possibilità o una speranza di vita per la nuova Maren finalmente nutrita da una relazione d’amore.
Ed in questa scelta, che orienta chiaramente l’intero racconto a sostenere l’incontro e la crescita di Maren e Lee, si legge l’intento del regista di dirci che “ il cuore è più forte del sangue” : se così non fosse devo dire che boccerei con decisione tutto il film, nonostante l’indubbia abilità tecnica della regia, fotografia, degli attori, nonostante il commovente racconto della solitudine in cui siamo stati catturati e coinvolti … .
Ma la domanda che mi tormenta è : era proprio necessario immergerci in tutto questo sangue e questa carne per dircelo?